Comune Spazio Problematico

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Comune Spazio Problematico è un’applicazione antidisciplinare, un’applicazione di pensieri prodotti dall’esperienza del viaggio, di quell’esperienza è l’estensione ad una forma assembleare di cui le parole sono lo strumento musicale, sono il suono dei concetti.

Questa ipotesi di assemblea ricerca un’alternativa all’ingabbiamento liberista che trasforma il desiderare l’appartenenza ad una vita felice in un’ovvietà per la quale è possibile limitare i diritti degli esseri umani di tutto il mondo. Per questa rappresentazione l’esperienza personale è la miglior fonte d’informazione per l’agire degli attori e per l’immaginazione scenotecnica ma della rappresentazione non ne è la verità costitutiva.

L’azione si svolge in una strada di Šuto Orizari, Municipalità del Comune di Skopje (Macedonia). Šuto Orizari è l’unica Municipalità al mondo in cui i rom, essendo la maggioranza, si autogovernano. In scena, un alto cancello bianco in ferro battuto separa Kadené Rustem, seduta su una seggiola in plastica, da un giovane antropologo e la sua traduttrice. Dall’altra parte della scena Amal ed Elvis ballano ininterrottamente, con trepida emozione e malcelato imbarazzo, una danza nuziale.
Comune Spazio problematico racconta di un viaggio, di una vita, di molte altre OpenOptions.

 

credits

ideazione, testo e regia:
Fiorenza Menni

drammaturgia:
Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi

con:
Mirsada Hadzalija, Andrea Mochi Sismondi, Kadene Rustem, Hamal Sarkozy, Elvis Trokesa

direzione tecnica:
Giovanni Brunetto

organizzazione e comunicazione:
Giorgia Mis

amministrazione:
Elisa Marchese

rassegna stampa

Estratti dagli articoli sullo spettacolo.

  • Il Piccolo di Trieste, 25 gennaio 2010
    Un cancello bianco, chiuso. Da una parte una donna, che racconta, anche con veemenza la sua realtà, le sue ragioni, dall’altra parte altre due persone. Il discorso comune è quello sulla democrazia, la libertà, cosa significhi essere felici. Cosa significa non esserlo. La lingua diversa che può sembrare un limite non lo è, grazie a chi fa da interprete, ma quella lingua, parlata in scena, in realtà non esiste. E’ inventata. E’ un simbolo, delle identità e delle differenze, e al contempo dell’uguaglianza, del sentire e delle necessità di base comuni ad ogni essere umano, dei cancelli che a volte si formano tra le persone, ma che in realtà potrebbero, e dovrebbero, non esistere. “Comune spazio problematico”è un interessante spettacolo di ricerca che si muove e stupisce lungo un forte senso di spaesamento.
    Annalisa Perini
  • Corriere di Bologna, giovedì 5 giugno 2008
    …L’intervistatore pone questioni sulla libertà, sulla migliore comunità politica possibile…Le risposte ci precipitano in un mondo rifiutato regolato da leggi restrittive, perseguitato, in una condizione di povertà che spinge a sviluppare le arti della sopravvivenza. Da una parte si discetta di educazione, di cultura, di possibilità, dall’altro lato di un cancello di ferro con un rifiuto infitto tra le sbarre si parla la lingua della nuda necessità, del bisogno. Questo primo nucleo promette uno spettacolo capace di affrontare in modo diretto ed emozionato la questione della diversità.
    Massimo Marino
  • Teatro San Leonardo, Bologna, 02 giugno 2008
    L’applicazione di stasera? Semplicemente pura. Di quella purezza che incanta, di quella banalità che uccide anche l’applauso spontaneo, incapaci di scindere la brutalità dell’argomento trattato dall’audacia degli attori. Imbonitori, falsi, fasulli, ipocriti nell’inventare una lingua dai toni acri e dissonanti. Impostori nell’imbonire un pubblico che si lascia affascinare da un vestito da sposa con sacchetto e I-pod. Traditori nel tradire il segreto della politica sociale, di cui tutti conosciamo le malate strategie, ma  che nessuno ha il coraggio di indagare fino in fondo. Nessuno ha il coraggio di andare fino a Skopje e incontrare una vecchia – perché quella era una vecchia – che racconta come stanno veramente le cose, facendoti sentire una merda, facendo vacillare tutte le tue impalcature intellettuali, artistiche e filosofiche, facendoti inesorabilmente tremare le gambe a ogni piccolo passo che fai per tornartene a casa (con le orecchie abbassate). Pasolinianamente scossi nella nostra borghesia da quattro soldi: così ci sentiamo, usciti da quello spazio vuoto, ripetitivo, pregno di un’idea ancora in gestazione, ridondante come la prima divisione cellulare di un embrione, indifferenziato, e incolto. Si sente la passione, l’ingenuo stupore di fronte alla mastodontica bellezza del dolore, di quella carestia di sentimento che un popolo sopporta da troppo tempo, soffocato e bruciato dal proprio essere “popolo povero”, senza soldi, senza capacità di scambio. A cosa serve costruire un parco giochi se dopo due giorni si sono rivenduti il ferro per far mangiare i bambini, gli stessi bambini che avrebbero dovuto divertirsi con quel parco giochi? È l’antica canzone del tavolo, del legno e dell’albero. I paradossi sembrano essere sempre esistiti: a cosa serve sottolinearne un altro, l’ennesimo, non più importante e terribile di un altro. È forse uno spazio furioso, che pone questioni sull’essere. È probabilmente uno spazio comune dove si genera l’incontro di più soggettività. È uno spazio problematico, dove avvengono scontri. Dove avvengono scontri.
    Elisa Fontana
  • Occhi Gettati, 6 giugno 2008, festival Metamorfosi, Cascina
    In un paese in cui la clandestinità é illegale, il Teatrino Clandestino resta fedele al suo nome e intraprende un viaggio in un mondo lontano dagli occhi, a Skopje, l’unica municipalità Rom, l’unico luogo di un popolo senza casa né confini, che vive ovunque e non é desiderato da nessuno. Contro questa logica mediatica e contro ogni stereotipo della rappresentazione etnica, l’unica arma a disposizione del teatro è l’incontro, il contagio, la verifica appassionata e assennata, in una parola il viaggio. I confini che il Teatrino Clandestino attraversa, senza documenti né lasciapassare, sono le fratture di un presente complesso che la chiacchiera qualunquista inneggia al pogrom di turno, all’espunzione, non importa lontano dove, basta che sia altrove. La scena seppellisce sotto una colata di cemento le buone intenzioni e il progressismo di maniera, l’utopismo formale e la politica filosofica. Non è possibile una soluzione semplice. L’interprete traduce, ma cosa possiamo davvero capire? La crudezza delle condizioni materiali è più forte dell’argomentazione politica. Su tutto si innesta anche il problema della rappresentazione estetica, del luogo comune romantico sull’anima gitana, del folklore che tace i conflitti e la sincerità. Così come quello della tradizione, che resiste, come incorporea, come un fantasma, negli sposi che danzano eternamente nello spazio possibile della scena. Quello del Clandestino è un teatro che si interroga sul suo possibile ruolo nel mondo, che teme di scoprirsi complice ma non rifugge l’autocritica, e Comune Spazio Problematico è un materiale scenico incandescente che sta ancora cercando la sua forma, ma senza fuggire all’incontro col pubblico, smontando i preconcetti pezzo a pezzo, come i giochi di ferro nel parco, a Skopje, fatti di fame e futuro.
    Lucia Oliva
  • Questo è teatro, dialogo tra me e il tuo teatro
    Il luogo
    Il progetto Comune Spazio Problematico prima di tutto ha trovato un luogo.
    Questo luogo ha un nome, Suto Orizari.
    Suto Orizari è l’unica municipalità rom al mondo.
    Suto Orizari è una comunità oggetto di studio.
    Entrare a Suto Orizari è stato entrare in una comunità. Essere entrati con il dubbio del Se, se è vero siete i benvenuti, entrare nel rispetto e nell’incontro.
    Suto Orizari è diventata la lente discreta tua e di Andrea, la lente discreta di uno scandalo.
    Comune Spazio Problematico racconta di uno strappo. In piedi. Sulla soglia dell’incontro. Abbracciati.
    Cosa significa dire arrivederci e sapere che quell’arrivederci è ciò che aprirà lo spazio del teatro?
    Siete tornati indietro con un carico pesante, con il disagio dell’autentico.
    Da qui e qui il teatro.
    Con un eccesso di umanità, con un eccesso di senso. Riportare tutto questo al teatro. Trovare le parole del vero, trovare le parole del fraintendimento.
    Dire che questo è teatro è dire che questo è vero.
    Un ricordo di anni fa. Alla domanda sull’origine di un vostro spettacolo mi rispondeste Da un’intuizione. Ripensando da allora a oggi credo che all’intuizione si sia aggiunta se non anche sostituita il senso dell’esperienza in prima persona, dell’incredulità, dello scandalo.
    Portare in teatro l’opzione aperta, esperienza condivisa dal proprio gruppo e da condividere.
    Farsi trasportare dalla realtà, esserne in balia, aperta, alle derive, ai giri persi, al vuoto.
    Lo strappo che diventa l’urgenza.
    E poi lo scandalo.
    di Elena di Gioia (Prime note)
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